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⇨ definición de ragione (Wikipedia)
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ragione
argomento, cagione, causa, cervello, discernimento, giudizio, giustificazione, giustizia, intelletto, intelligenza, intendimento, mente, motivazione, movente, perché, proporzione, rapporto, senno
ragione (n.)
ragione (n.f.)
affiatamento, comprensione, diritto, facoltà intellettiva, giurisprudenza, intelletto, legge, motivo, ordinamento, proporzione, quoziente, rapporto
Ver también
ragione (n.f.)
↘ assennato, avere motivo di, di buon senso, ragionevole, razionale, sensato ↗ proporzionare, rapportare
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ragione (n.)
ragione (n.)
ragione (s. f.)
ragione (s. f.)
astrazione[Hyper.]
ragione (s. f.)
taux financier (fr)[Classe]
proporzione; reddito; provento; ricavo[Classe]
partie (fr)[Classe...]
proporzionare, rapportare[Nominalisation]
ordine di grandezza[Hyper.]
Wikipedia
La ragione, in filosofia, è la facoltà per mezzo della quale si esercita il pensiero, soprattutto quello rivolto ad argomenti astratti. La ragione è ritenuta dalla maggior parte dei filosofi una facoltà universale, tale da essere condivisa tanto dagli umani quanto, teoricamente, da animali (per i quali si preferisce parlare di istinto), o intelligenze artificiali che userebbero la ragione intesa come calcolo. Sono molti i pensatori che si sono dedicati allo studio di questa nozione, dando luogo a molteplici prospettive, spesso reciprocamente incompatibili.
Indice |
"Ragione" deriva dal latino "ratio", termine che nel linguaggio comune significava calcolo o rapporto. Fu Cicerone ad usarlo per tradurre la parola logos, che però in greco assume anche l'ulteriore significato di discorso.
Nel Medioevo la scolastica usò invece il termine ratio per tradurre il greco dianoia, ossia quella facoltà contrapposta al nous che viene tradotto in latino con intellectus.
L'originario significato di ragione come discorso lo si ritrova nell'antico modello argomentativo della geometria di Euclide, il quale, facendo uso di premesse iniziali per giungere a delle conclusioni, si serviva a loro volta di quest'ultime come premesse per ulteriori conclusioni.
La ragione in questo senso era intesa come la facoltà, o il processo, in grado di produrre inferenze logiche. A partire da Aristotele, che si rifece al modello euclideo, tali ragionamenti sono stati classificati sia come ragionamenti deduttivi (che procedono dal generale al particolare) sia come ragionamenti induttivi (che procedono dal particolare al generale), sebbene alcuni pensatori non siano d'accordo nel vedere l'induzione come un ragionamento.[1] Nel XIX secolo, Charles Peirce, filosofo americano, ha aggiunto a queste due una terza categoria, il ragionamento adduttivo, intendendo "ciò che va dalla migliore informazione disponibile alla migliore spiegazione", che è diventato un importante elemento del metodo scientifico. Nell'uso moderno, "ragionamento induttivo" include spesso ciò che Peirce ha denominato "adduttivo".
Occorre precisare, tuttavia, che lo stesso Aristotele era stato poco chiaro nel definire l'induzione come un "ragionamento", ossia come una prerogativa della ragione. Il termine greco epagoghé da lui usato, che oggi traduciamo appunto con induzione, non sembrava avere per Aristotele alcun carattere di consequenzialità logica. Per lui, in realtà, l'unica forma di razionalità logica era quella deduttiva (dall'universale al particolare), mentre una "logica induttiva" sarebbe stata per lui una contraddizione in termini.
Aristotele distinse inoltre la semplice ragione (da lui chiamata diànoia), dall'intelletto (o noùs): la razionalità deduttiva, infatti, la cui forma esemplare è il sillogismo apodittico, pur essendo capace di trarre conclusioni coerenti con le premesse, cioè di effettuare dimostrazioni corrette da un punto di vista formale, non può in alcun modo garantire la verità dei contenuti; per cui se il ragionamento parte da premesse false, anche il risultato finale sarà falso. Aristotele assegnò pertanto all'intelletto, distinto dalla ragione, la capacità di cogliere la verità delle premesse dalle quali scaturirà la dimostrazione, attraverso un processo intuitivo capace di astrarre l'essenza universale della realtà da singoli casi particolari. Questo procedimento intuitivo-intellettivo è avviato appunto dall'epagoghé, ma si tratta comunque di un procedimento di natura extra-razionale, il che, si badi, è diverso da "irrazionale": l'intuizione intellettuale era infatti situata da Aristotele ad un livello superiore rispetto alla ragione.[2]
Sotto quest'aspetto l'impostazione aristotelica risentiva dell'influsso di Platone,[3] che già aveva parlato di intuizione sostenendone la superiorità nei confronti del ragionamento. Tale superiorità sarà ribadita in età ellenistica con il neoplatonismo, e in seguito fatta propria dal pensiero cristiano di Sant'Agostino.
La distinzione tra ragione e intelletto, passata attraverso la scolastica medievale, resterà valida almeno fino al Settecento, sempre basata sulla convinzione che, perché vi sia scienza, la ragione da sola non è sufficiente: questa infatti garantisce soltanto la coerenza interna delle proposizioni che costituiscono il ragionamento, ma non può condurre in alcun modo alla verità dei princìpi primi.
Sarà con l'avvento dell'età moderna che alla ragione verrà sempre più assegnato un ruolo egemone nel produrre scienza.
Hegel arrivò a concepire la ragione in termini assoluti, non come semplice strumento di ragionamento ma come entità suprema che si identifica con la verità ultima del reale, assegnando invece all'intelletto un ruolo secondario e subordinato a quella. Non mancarono critiche nei confronti di questa concezione assolutizzante della ragione, ad esempio da parte di Friedrich Schelling, Soren Kierkegaard, Friedrich Nietzsche, e più recentemente di Karl Popper.
Al giorno d'oggi esistono accezioni più ampie del termine "ragione". George Lakoff e Mark Johnson hanno descritto così la ragione ed i suoi scopi:
« La ragione include non solo la nostra capacità di produrre inferenze logiche, ma anche quella di condurre indagini, risolvere problemi, valutare, criticare, decidere il modo di agire e raggiungere la comprensione di se stessi, degli altri e del mondo. » | |
(Lakoff e Johnson 1999, pp. 3-4)
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A volte si oppone la ragione alla sensazione, alla percezione, al sentimento e al desiderio; per David Hume la ragione è al servizio dei desideri (cioè il mezzo per ottenere ciò che si vuole).
Per i razionalisti la ragione è la facoltà con la quale si apprendono intuitivamente le verità fondamentali. Queste verità fondamentali sono le cause (ovvero le "ragioni") per cui è tutto ciò che è ed avviene tutto ciò che avviene. A sua volta, l'empirismo nega l'esistenza di una tale facoltà.
Per Immanuel Kant, la ragione (in tedesco Vernunft) è il potere di sintetizzare i concetti forniti dall'intelletto (in tedesco Verstand). La ragione in grado di fornire principi a priori è chiamata da Kant "pura" (aggettivo che dà il titolo alla sua opera principale, La Critica della ragion pura), per distinguerla dalla "ragion pratica" che riguarda invece la morale del comportamento.
Nella teologia cristiana, ed in particolare nella scolastica medievale, la ragione è vista come ancilla theologiae: essa è ben distinta dalla fede e consiste nell'esercizio dell'intelligenza umana a favore della chiarificazione di nozioni religiose. Secondo tale visione, la religione pone i limiti all'interno dei quali la ragione può effettivamente essere esercitata, al riparo dagli eccessi della presunzione.[4] Questi limiti sono concepiti in maniera diversa a seconda delle diverse confessioni religiose e dei periodi storici di riferimento: in generale, si può dire che il cristianesimo protestante tende a separare più nettamente il margine d'azione della ragione da quello della fede,[5] mentre il cattolicesimo, pur stabilendo l'autonomia dell'ordine naturale del mondo rispetto a quello soprannaturale e riservando quindi alla fede l'ambito delle verità della teologia,[6] si mostra più propensa a una conciliazione tra fede e ragione, il cui reciproco rapporto è visto in un'ottica di complementarietà.[7]
Al di là di ogni definizione, la ragione è stata spesso vista come prerogativa dell'uomo, come tratto distintivo da ogni altro animale, tanto che, ad esempio, Aristotele parla di uomo come "animale razionale", che cioè ha in comune con tutti gli altri animali il fatto di essere animale, e come peculiarità rispetto a tutti gli altri quella di essere razionale.
Una tale peculiarità consiste nella capacità, tra le altre cose, di imperniare sulla ragione la fondazione della filosofia, e del sapere in generale, in maniera oggettiva e distaccata.
Oggi tuttavia, l'idea di ragione come facoltà indipendente della mente, separata dalle emozioni, e come caratteristica appartenente solo all'uomo, è fonte di notevoli discussioni: basti considerare le teorie di George Lakoff e Mark Johnson.[8]
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