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⇨ definición de tragedia (Wikipedia)
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tragedia (n.f.)
cataclisma, catastrofe, disgrazia, dramma, infortunio, malanno, malasorte, mala sorte, scalogna, sciagura, sinistro
Ver también
tragedia (n.f.)
↘ calamitoso, catastrofale, catastrofico, disastroso, disgraziato, fatale, infelice, sciagurato, sventurato, tragico ≠ comica, commedia
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tragedia (s. f.)
spettacolo[Classe]
genre théâtral dramatique (fr)[Classe]
opera d'arte; lavoro; opera[Classe]
tragédie (théâtre) (fr)[termes liés]
tragedia (s. f.)
Wikipedia
La tragedia (dal greco antico τραγῳδία, trago(i)día) è una delle forme più antiche di teatro.
Le sue origini sono oscure, ma derivano certamente dalla ricca tradizione poetica e religiosa della Grecia antica.
Indice |
Per approfondire, vedi la voce Tragedia greca. |
La tragedia nasce intorno al VI secolo a.C. nell'Antica Grecia, in onore del dio Dioniso, il quale veniva festeggiato con danze, canti e feste. L'origine del termine è avvolta nel mistero: secondo le teorie più accreditate la prima parte del nome va messa in rapporto con “tràgos” “caprone” e la seconda con “oidè” “canto”, infatti si pensa che probabilmente la tragedia è così chiamata o perché il vincitore della gara otteneva, per l'appunto, un capro come ricompensa (canto per il capro), oppure perché i coreuti indossavano delle maschere con sembianze caprine (canto dei capri).
Aristotele afferma che la tragedia discende dal Dramma satiresco. Secondo Aristotele il nome “drama” deriverebbe dal dorico δρᾶν "drán” “fare/agire”. Inoltre, nella Poetica (1450) definisce la tragedia un'«imitazione di un'azione seria e compiuta in se stessa, che abbia una certa ampiezza, un linguaggio ornato in proporzione diversa a seconda delle diverse parti, si svolga a mezzo di personaggi che agiscano sulla scena e non narrino».
In epoca antica Atene rivendicò la paternità della tragedia, anche se la lingua in cui il Coro si esprimeva è la lingua dorica.
Il tempo della tragedia è un presente assoluto "hic et nunc" che agisce in quella 'realtà alternativa' che è il momento teatrale. Lo spettatore della Grecia antica che assiste ad una tragedia vive una realtà che differisce da quella che sperimenta quotidianamente, ma che è altrettanto reale. L'atto teatrale, che accade in un tempo presente contemporaneo a quello di chi assiste, rende possibile qualsiasi evento imprevisto, esattamente come il presente dell’esperienza quotidiana, pur rifacendosi ai miti che in quanto tali sono eventi passati e immutabili.
L'eroe tragico, impersonato dall'attore, non perde la sua facoltà di autodeterminazione: i testi tragici sottolineano la volontà dell'uomo come elemento determinante, mettendolo a confronto con una alternativa, nella quale egli può ancora scegliere.
La contraddizione, all'interno dell'illusione teatrale, è tra il presente scenico e il passato del mito, nel quale la scelta è già stata fatta. Nella tragedia prende forma il paradosso della coesistenza di due diversi universi temporali. Il percorso obbligato del mito costituisce il destino dell'eroe tragico, iniziando la riflessione umana sul contrasto tra necessità e libertà, riflessione con la quale anche il mondo contemporaneo continua a confrontarsi.
Mentre per Eschilo la tragedia è quella della giustizia divina, del rapporto dell'uomo e dell'intera stirpe umana con le divinità, per Sofocle gli dei sono potenti ma lontani e la tragedia rappresenta il dolore e l'infelicità dell'uomo che non accetta mai compromessi. Euripide si distingue dagli altri due grandi autori perché mette in evidenza il ruolo dell'irrazionale, della passione e dei sentimenti.
Al tempo dell'antica Grecia, una tragedia veniva così inscenata: Un gruppo di 15 persone, chiamato Coro, narrava l'antefatto cantandolo. Successivamente dal coro si staccavano piano piano dai 2 ai 5 attori che inscenavano lo spettacolo.
Ma ben presto prende importanza l'attore (il "protagonista"), che viene affiancato da un secondo attore ("deuteragonista") e poi (ad opera di Sofocle) da un terzo ("tritagonista").
A causa dell'interazione tra gli attori, che dialogano tra di loro, ecco che il baricentro dell'azione si sposta sul loro dialogo. Il Coro tende a diventare quasi uno sfondo scenico, o per lo meno a perdere la funzione originaria, interagendo in modo complesso con l'azione.
Iniziano a parlare in trimetri giambici, metro che produce una cadenza molto vicina al parlato e non sono accompagnati da musica, mentre il Coro è continuamente accompagnato dal suono del flauto.
Il compito del Coro è anche quello di spiegare al pubblico azioni e reazioni che avvengono sulla scena, le quali, per motivi ovvi, non sono di facile e immediata comprensione; il Coro è neutrale rispetto agli attori e alle loro azioni, e svolge la funzione di "narratore". I cittadini greci infatti erano obbligati a partecipare agli spettacoli, in modo che tramite questi si arrivasse a quella purificazione dei mali e presa visione dei propri limiti che era chiamata da Aristotele catarsi.
La tragedia greca propriamente detta si stempera nel periodo romano repubblicano. I Romani adattano le tragedie al loro tempo e alla loro cultura fabulae pratextae. Tra i grandi autori di tragedie di ambito romano si possono ricordare nomi come Ennio e Nevio. La tragedia greca riprende vigore con Lucio Anneo Seneca, ma il gusto dell'orrido, del magniloquente e il grande numero di personaggi (non adatto per il teatro tragico a quel tempo) portano a ritenere che esse non fossero rappresentate ma destinate alla declamazione. Nell'era cristiana scorgiamo alcuni monaci, come Rosmita che cercano di riprendere la modulistica tragica classica per parlare di argomenti biblici e sacri a fini apologetici e di conversione.
Il medioevo è caratterizzato da molte rappresentazioni, per lo più a sfondo sacro ed edificante, ma difficilmente possiamo scorgervi un legame o una parentela con la tragedia.
La tragedia rinasce invece in tempi più moderni, e si riallaccia in qualche modo alle epoche precedenti, ma anche trasformandosi e a volte fondendosi in forme nuove. Ecco che si rinverdiscono i temi mitologici (es. Metastasio), si fa confluire la tragedia con l'Opera lirica (secondo gli autori la tragedia cantata era la prosecuzione della tragedia greca) e quando si disperdono i temi mitologici gli argomenti restano comunque spesso eroici, aulici e lontani dal quotidiano, accostandosi così ai temi cari ai cantori delle gesta di questo o quel personaggio.
Questo accade già in epoca rinascimentale e post-rinascimentale, con autori che la rappresentano sulla scena (come ad esempio Shakespeare) che peraltro si basa su moduli e temi originali o, col tempo, anche in forma del tutto letteraria, che conserva un legame più o meno forte con la rappresentazione teatrale, o lo perde del tutto, divenendo un genere da leggere, senza neppure più ambire ad una scena.
Si può dunque dire che negli ultimi secoli il cammino della tragedia si diversifica: vi è quella che mantiene un rapporto stretto con la scena (es. Brecht, ecc. ) quella che diviene un genere letterario, quella che confluisce nell'opera lirica ("La Clemenza di Tito" musicata da Mozart o senza più ambizioni di imitazione del teatro classico l'"Elettra" di Strauss), quella che al contrario riafferma la sua vicinanza alla poesia pura (es. Alessandro Manzoni, ma anche Oscar Wilde ecc.), quella che reinterpreta i miti greci, o che rappresenta le tragedie sociali del presente (per esempio, I Cattivi pastori, di Octave Mirbeau, 1897), e così via.
Secondo George Steiner non ci sono oggi molte possibilità per la tragedia come forma d’arte, a meno di cercare il tragico in qualcosa di estraneo all’arte stessa. L’uomo d’oggi è infatti, secondo Steiner, saturato da catastrofi e da atrocità di fronte alle quali reagisce spesso con indifferenza.
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